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Il virus di essere uomini

Aggiornamento: 22 lug 2020

“Ecco un altro articolo che parla del coronavirus” direte voi. Sì… Ma anche no. Non starò qui a parlarvi di come sia tragica la situazione sanitaria in Italia, di come l’economia sia cambiata e stia cambiando, dei rapporti tra l’Italia e l’Europa, o di come Conte, Salvini e la Meloni continuino a battibeccarsi tra di loro nonostante ci sia una situazione di emergenza che non si verificava da decenni; come non dirò che questa quarantena può farci riscoprire valori o passioni cadute nel dimenticatoio per lo stress della quotidianità, e non darò nemmeno consigli su come passare il tempo a casa. Di cosa parlerò?


Voglio fare una riflessione. Nel corso della storia ci sono state diverse epidemie, se pensiamo a quelle contemporanee, oltre al coronavirus, ci siamo ritrovati l’ebola, l’aviaria, la suina, la mucca pazza; andando indietro troviamo l’asiatica, la spagnola, il tifo, il vaiolo, la peste, solo per citarne alcune, che tra le altre cose, si sono ripresentate più volte negli anni. Insomma, il genere umano sembra essere rodato per far fronte ad un eventuali epidemie, e poi con le conoscenze mediche che abbiamo oggi sembra essere tutto molto diverso da come era in passato. Ma ne siamo assolutamente sicuri? Siamo diversi rispetto al passato?





Prenderò come fonte per la mia riflessione un autore della letteratura italiana che conoscete tutti: sto parlando di Manzoni. Tutti conoscete i Promessi Sposi, tutti avrete letto qualche passo a scuola, magari svogliati e pensando “Ma perché devo leggere sta roba?”. Ve lo dico io perché. Io stesso a scuola leggevo i Promessi Sposi di malavoglia, con tutte le sue digressioni, l’italiano ormai vecchio, le troppe pagine, l’obbligo di studiarlo perché semplicemente “è il primo romanzo della letteratura italiana”. L’ho rivalutato crescendo, ma questo è un altro discorso. La cosa importante è che, nonostante a livello letterario fossi maturato rispetto ai tempi della scuola, non avrei mai pensato che potesse essere estremamente attuale se non avessi visto determinate scene in televisione o sul web nelle prime fasi dell’epidemia del coronavirus in Italia.

Come ho già detto, nei Promessi Sposi ci sono tante digressioni, molte delle quali contestualizzano il periodo in cui i nostri cari protagonisti si muovono: Manzoni infatti si rifà sempre alla realtà storica, attingendo a diversi documenti e informandosi in modo molto minuzioso, perché, ricordiamolo, l’ultima edizione dei Promessi Sposi, quella che tutti noi conosciamo, è del 1840, e la storia è ambientata due secoli prima, tra il 1628 e il 1630.

Probabilmente non tutti siete arrivati in fondo al romanzo leggendo della peste che dilagò in Italia in quegli anni. Nel caso non lo sapeste, la fonte da cui Manzoni attinge per quei capitoli è Giuseppe Ripamonti, storico vissuto a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, che scrisse dell’epidemia, e che più volte l’autore nomina.



Sapete cosa ha scatenato la peste in Italia? L’arrivo dei lanzichenecchi. E qui si può già dire che la malattia non aveva avuto origine nel nostro Bel Paese, ma era stata portata da fuori; esattamente come il coronavirus, originato in Cina e poi diffuso nel resto del mondo. Le cause delle due origini epidemiche sono quindi uguali, ma questo non aggiunge nulla di nuovo alla nostra riflessione.

Iniziato il contagio, in molti, tra cui medici, non volevano ammettere in alcun modo che fosse peste; iniziarono a dire che si trovavano davanti ad una febbre pestilenziale — quindi iniziava ad avere a che fare con la peste; poi iniziarono a dire che era peste, ma non era una vera peste, era peste in un certo senso, ma non proprio peste; e solo in un altro momento si iniziò finalmente a dire che la peste era arrivata. Voi direte che era un’altra epoca, che la mentalità come anche le conoscenze mediche erano diverse da quelle di oggi. Ma una cosa molto simile sembra essere successa ai nostri tempi. Se ricordate, quando ancora il contagio del coronavirus non era così diffuso, in molti dicevano che questo “virus cinese” non era né più né meno di un’influenza e che le persone che si aggravavano erano solo quelle con problemi preesistenti, e questo ha portato ad una generale sottovalutazione di quella che sarebbe stata la reale portata del virus, e solo dopo che il numero di contagi è iniziato a crescere di giorno in giorno, si è veramente realizzato quanto fosse rapido e pericoloso il contagio. Forse le cause del nostro comportamento e di quelle del ‘600 sono diverse, forse effettivamente non eravamo a conoscenza di ciò che il coronavirus potesse fare anche ai giovani o a chi gode di una buona salute, ma è difficile non notare le analogie tra le prime affermazioni di entrambe le epidemie.






Alla diffusione del contagio si aggiunge la diffusione di notizie false che riguardano la stessa epidemia. Le fake news sono all’ordine del giorno: mi è capitato di leggere che bevendo acqua calda o tisane si abbassa il rischio del contagio perché queste aumentano il calore corporeo e il virus non lo sopporterebbe; che bere più acqua aiuta a pulire le vie aeree e che spinge il virus nello stomaco, dove viene distrutto; che tagliare la barba evita il contagio; e come dimenticare anche il famoso pezzo di carta su cui sono segnati tutti i contagi degli ultimi tre secoli, e per puro caso erano tutti gli inizi degli anni venti, cosa molto improbabile a livello logico e falsissima a livello storico, ma che ha alimentato la fantasia di complottisti e non. Ma non pensate che sia un problema che affligge solo il nostro tempo: anche nel ‘600 non mancavano le false notizie e le false convinzioni, come quella che la peste avesse delle cause astronomiche o magiche. Un’affermazione del genere oggi fa ridere, ma ricordiamoci che c’è gente che crede veramente che l’acqua aiuti a pulire le vie aeree.

Oltre alle cause magiche e astronomiche, Manzoni ci racconta di un’altra fake news: la caccia agli untori. Il contagio era cresciuto così come anche il numero di vittime, e la paura stessa del contagio portò alla credenza che alcune persone andassero di casa in casa, ungendone le porte per contagiare più gente possibile, e si arrivava addirittura a pensare che gli untori fossero pagati da qualcuno per fare ciò che si diceva facessero. La cosa buffa è che a testimonianza del comportamento degli untori non ne esisteva alcuna prova a sostegno, solo dicerie. Ogni azione di una persona poteva essere fraintesa e automaticamente diventava un untore, come il vecchio nella chiesa, che voleva sedersi, e si era messo a pulire la panca per paura di essere contagiato, e subito era stato additato come untore e la folla si era riversata su di lui per dargli una lezione.

L’ignoranza e la paura portavano le persone a credere a questo genere di notizie, e anche il loro modo di comportarsi era cambiato. Manzoni scrive che “la frenesia s’era propagata come il contagio”. C’era dell’isteria di massa, e noi non ne siamo rimasti esclusi se pensate all’inizio della quarantena, quando la gente affollava i supermercati per fare scorte di alimenti e svuotare gli scaffali, per paura che anche quel settore si sarebbe bloccato e ci sarebbe stata una carestia degna dei tempi di guerra.

La speranza che si riponeva in Dio perché l’epidemia cessasse era molta, tant’è che si organizzò una processione con l’assurda credenza che questa avrebbe fermato i contagi, e invece non fece altro che aumentarli. Sembra che quest’esempio non sia molto conosciuto, perché ai tempi del coronavirus pare che siano in tanti a volersi radunare per pregare e tanti sono gli appelli, di politici e persone più o meno note, laiche e non, che chiedono di riaprire le chiese perché gli italiani vogliono il conforto della preghiera.



Una delle cose più simili tra l’epidemia di peste raccontata nei Promessi Sposi e quella del coronavirus è il cambiamento dei rapporti umani. Allora come oggi, tutti avevano paura del contatto, tutti stavano ben attenti a mantenere una certa distanza dalle altre persone. La paura di essere contagiati era altissima, tanto da non arrivare a fidarsi né di vicini, né di ospiti, e nemmeno della propria famiglia. Manzoni ci mostra come anche durante la pestilenza le persone salutassero da lontano i propri amici e conoscenti, e di come il modo di vestire era cambiato, in modo tale che non si avessero addosso capi svolazzanti che potessero entrare in contatto con una superficie o una persona contagiata; le strade si erano svuotate, anche se qualcuno in giro lo si trovava sempre; e, cosa più triste, alle vittime non si potevano fare degne esequie.





Però in mezzo all’ignoranza, alla paura, e al dolore di aver perso una persona cara, in mezzo a tutto questo, riuscivano anche a tenere viva la fiammella della speranza: tre volte al giorno, all’alba, a mezzogiorno e alla sera, suonavano le campane e la gente usciva dai balconi e dalle finestre per pregare insieme, esattamente come i flash mob a inizio quarantena, in cui la gente usciva dalle finestre e dai balconi per cantare insieme, per farsi coraggio l’un l’altro, o semplicemente per dare fiato ad un urlo di speranza.

In tutto questo, non dobbiamo dimenticarci di chi si prendeva cura degli ammalati, i frati, che nonostante l’altissimo pericolo di contagio, a causa dello stretto contatto con le vittime dell’epidemia, erano lì a occuparsene e a dar loro conforto, così come i nostri medici, che da settimane continuano a battersi in prima linea, col rischio persistente di essere contagiati e di perdere la vita, com’è successo a tanti di loro.

Insomma, gli anni sono diversi, i secoli sono lontani tra di loro, e i mezzi di comunicazione come la scienza medica sono completamente diversi, ma la mente e l’animo dell’uomo sono rimasti uguali.



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