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  • antoniobellamacina

Con lo scudo o sopra lo scudo: La dignità dei vinti e la ragione dei vincitori

Aggiornamento: 21 mar 2021

C’è tutta una letteratura sui vinti, a volte misconosciuta o non considerata, che esplora le sofferenze e tratteggia il profilo del “vinto”. La guerra di Troia ci è stata raccontata sin da bambini come questo mega avvenimento epico, dove Achille, Ulisse e tutti questi grandi eroi hanno portato a compimento un qualcosa di ammirabile. Il famoso cavallo di Troia è certamente un qualcosa che suscita fascino e curiosità. Non ci è stato raccontato però come questo, sia stato un avvenimento totalmente devastante sul piano umano per “l’altra parte”.

I civilissimi Greci hanno sconfitto i Barbari, commettendo allo stesso tempo un atto altrettanto barbaro. D’altronde l’approccio principale che si ha con la narrazione della guerra di Troia è quello con l’Iliade. L’idea della sofferenza ci viene data in maniera asettica e lattiginosa da Omero in rari loci (passi) dell’opera. Ad esempio il VI libro. La scena di Andromaca supplicante Ettore la conosciamo più o meno tutti. Ma ecco che è già meno nota la scena potenzialmente tragica e straziante che ci dà Virgilio. Su cosa accada dopo l’espugnazione di Ilio Omero o chi dietro questo nome, non si cruccia nel raccontarlo. Lo fa Virgilio in quello che erroneamente è considerato il prosieguo dell’Iliade, L’Eneide.


Siamo nel II libro, ormai i civilissimi Greci hanno fatto brutalmente irruzione nella città, devastando tutto ciò che ha la sfortuna di sbattere contro il loro intercedere. Tra gli assediatori c’è il figlio del grandissimo Achille, Neottolemo. Storicamente, perché anche la storia ha una sua narrazione, il momento topico di un assedio è l’espugnazione del palazzo reale. (In tempi più recenti si pensi all’occupazione del Palazzo d’Inverno e alla cacciata della famiglia reale zarista o ancora prima l’assedio di Versailles).

E il Baluardo di Troia era Priamo con la sua prole e la sua amovibilità nel restituire Elena a Menelao o quella che presumibilmente si pensava fosse Elena, ma quella è un’altra storia. Priamo è un sovrano decrepito, debole nella carne e nelle ossa, ma forte nello spirito. È il tipico capo di Stato intransigente, che non riesce ad accettare il crollo di ciò che ha costruito e Virgilio ci descrive questa scena di pietosa di lui che s’infila l’armatura e impugna armi che il suo corpo provato non riesce a reggere. Inutile dire che la furia omicida del corpo tonico e giovane di Neottolemo lo fa fuori in pochi secondi. Il grande Priamo muore in modo non altrettanto grandioso. Sgozzato come una bestia al macello davanti al corpo inerte di un figlio che non è riuscito a proteggere. Ma in quella che impropriamente chiamerò sala del trono non ci sono solo Priamo e Neottolemo. C’è anche Ecuba insieme alle sue figlie, “che strette come colombe cacciate in nera tempesta”, assistono impotenti e terrificate alla mattanza commessa dal figlio del grande Achille. Ecco l’esplorazione del dolore di un avvenimento che inizia a sembrare non poi così tanto grandioso. Virgilio dimostra di possedere una sensibilità tale per cui non riesce a sorvolare sulle sofferenze di quei personaggi che non stanno dal lato giusto della storia. D’altronde nella I ecloga o bucolica lo vediamo dispiacersi per la sofferenza di una capretta costretta a partorire su una roccia e ad abbandonare il figlio. Ma fondamentalmente Virgilio apre un piccolo focus su un personaggio, forse misconosciuto, ma che è centrale per capire ciò che la guerra di Troia e, se lo si vuole considerare un universale antropologico e culturale, in generale la guerra siano. Centralità. È questa la caratteristica che attribuirei al personaggio di Ecuba che ricorre in maniera costante nella drammaturgia di Euripide. Forse il primo stanco della visione retorica, militarista e edulcorata della vita che il mito offriva.

Al di là della tragedia che porta proprio il nome di Ecuba, ve n’è un'altra, Le Troiane, che è la rappresentazione per noi letteraria, ma all’epoca anche scenica, delle sofferenze che la guerra arreca agli sconfitti e che la storia non si cura di raccontare. Nelle Troiane vediamo passare in rassegna una dopo l’altra tutte le donne troiane, che non essendo state uccise, vengono date in schiave ai grandi vincitori achei. Tra queste una Cassandra praticamente bambina e un’Andromaca madre a cui viene strappato dal seno il figlio Astianatte, che dev’essere ucciso per estirpare totalmente la stirpe troiana. E in questo continuo flusso di patimenti che si susseguono, introiettando nello spettatore o nel lettore una partecipazione emotiva a quello strazio, resta sempre al centro la figura di Ecuba. Il suo corpo diventa incarnazione di tutte le sofferenze del popolo troiano. Vede deportate la figlia e la nuora ed è costretta a seppellire lei stessa il corpo deforme del nipotino, scaraventato al suolo dall’alto delle mura. E una volta che tutte le donne troiane sono state stipate nelle navi greche in attesa della loro sorte di schiave, resta lei. La splendida reggia viene incendiata e davanti alle macerie in fiamme di quella che figuralmente ha rappresentato la sua stessa vita, Euripide, per restituire l’idea di un dolore portato agli estremi dell’esasperazione, rappresenta Ecuba disperata che prende la rincorsa verso le fiamme, per fare della reggia la sua stessa pira. Ciò che prima rappresentava la sua vita, ora dev’essere anche il suo luogo di morte. Non sarà così, perché ora non appartiene più a sé stessa (come tutte le donne dell’epoca forse non si è mai appartenuta, ma è un altro discorso), il suo corpo è di proprietà dello stimabile Ulisse.

Quindi questo gesto assolutamente disperato e denso di una carica anche troppo eccessiva di patetismo viene impedito. Ed è nell’esplorare la sofferenza di Cassandra, Andromaca, Ecuba ed in generale del Vinto, che si trova a volte la ricchezza e la verità di un evento. Πάθει μάθος. Nel dolore, la conoscenza.


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